Mi arrabbio quando per squalificare una cosa, anziché ragionarci su, si ricorre ai luoghi comuni. E’ quello che accade al liberismo. Ecco la prova: Com’è il liberismo?
Avete indovinato: ça va sans dire, madame, il liberismo è sempre selvaggio. Essere liberista e basta sembra non essere una opzione disponibile.
Io però mi ostino a esserlo, liberista, e a credere di non esserlo, selvaggio.
Perché?
Perché di liberismo abbiamo bisogno, soprattutto in Italia, soprattutto in Europa. Perché viviamo in una economia statalista che l’Unione Sovietica se la sognava.
Abbiamo interi settori industriali controllati di fatto dallo Stato. Avanti, dite un settore, coraggio… come? Telecomunicazioni? Telecom. Cosa? E’ privata, di Tronchetti Provera mi state dicendo? Già. E le commesse pubbliche? E le relazioni? E la connivenza di cui gode dagli apparati, che gli consente (ad esempio) di continuare a vessare indisturbata i suoi clienti, addebitando soldi per servizi mai sottoscritti, senza che un giornalista si sprechi a montarci su una bella inchiesta?
Giornalisti, dicevamo… informazione… libri, giornali, stampa, televisione, cinema, teatro, sport… cos’altro?
L’editoria italiana vive di assistenza statale. Non c’è un giornale che guadagni. Né c’è un giornale che si ponga il problema di dover guadagnare, ché tanto ci sono i contributi dello Stato. Andatevi a vedere i bilanci, se non ci credete, e prestate attenzione, alla riga ricavi, alle cifre relative alla vendita di copie e di pubblicità, e a quella relativa ai contributi dello Stato.
Ah, ma la televisione, non la RAI, ok, però Mediaset… che?!? Certo, uno guarda Mediaset e dice: dov’è lo Stato lì? E’ un’impresa privata: magari Berlusconi è antipatico, però la sua impresa lasciala stare, è una bella impresa.
Già, una bella impresa, come tutte le altre grandi imprese italiane: indebitate fino al collo. La grande impresa italiana vive di debiti nei confronti del sistema bancario, notoriamente largo di manica coi grandi e potenti, quanto becero e gretto con l’imprenditoria vera.
Telecom, tanto per ritornarci, ha un ammontare di debiti superiore ai suoi ricavi. Non ho detto agli utili, badate bene, ho detto ai ricavi.
Vogliamo parlare di Fiat? Di Parmalat? Di Mediaset? Di cos’altro?
In breve: le aziende stanno in piedi perché qualcuno presta i soldi. Sono quindi in mano non agli azionisti, come dovrebbe essere, ma a chi presta loro i soldi, cioè alle banche. Le quali, a loro volta, sono per lo più in mano alle grandi industrie (e come fanno a negargli i soldi?) e ai potenti della politica di ogni colore.
L’agricoltura. Beh, di questo non parliamo neanche. In agricoltura non solo i grandi e grossi, ma perfino i piccolissimi vivono di sussidi europei. Il bilancio europeo fa schifo: il 40% è destinato a contributi all’agricoltura (con conseguenze protezionistiche contro le importazioni dai paesi in via di sviluppo, che così non si svilupperanno mai).
Una prova del centralismo e dello statalismo dominante, stavolta in versione europea?
L’Unione Europea si occupa tra l’altro, con le sue direttive, del diametro delle mele. Avete capito bene. E la nostra Coldiretti – ormai accolta tra le braccia del movimento progressista e politically correct che da Carlo Petrini arriva fino al ministro Alemanno, passando per CL, Verdi e Forza Italia – chiama a raccolta, alla mobilitazione.
Non già come a me liberista (selvaggio?) verrebbe da fare, ribellandosi cioè alla sola idea che il diametro delle mele debba costituire l’oggetto di una norma addirittura sovranazionale. Ma ricorrendo al populismo più becero, alla demagogia più grottesca: no alla riduzione del diametro delle mele, altrimenti avremo meno polpa e più semi! (mah, anche nel merito, a me le mele grosse non piacciono, e le più buone sono quelle che crescono su un alberello del mio giardino, e sono piccolissime).