Il blog di Antonio Tombolini

Mangiare è più che mangiare. O non è.

M


La dignità dell’uomo risiede nel suo poter fare di ogni cosa un Kultur-Arbeit (diceva papà Freud), un lavoro di civilizzazione. Bene: mangiare all’Ambasciata di Quistello sabato scorso, ospiti di San Lorenzo, con una compagnia tanto casuale e composita quanto piacevole, lontana anni-luce dallo stereotipo dei ghiottoni caciaroni in trasferta, è stata l’esperienza di come anche mangiare possa essere vissuto come un lavoro di civilizzazione, da cui si esce più grandi, più buoni, migliori.
Merito dell’occasione, della compagnia: ma merito dell’Ambasciata di Quistello, dello spirito di quel luogo, di quella cucina, di quelle persone (i fratelli Tamani e i loro collaboratori, fornitori compresi), ristorante che con coraggio raro proprio questo si propone, di offrire cioè all’avventore un’esperienza totale e coinvolgente.
Ne ha parlato Franco Ziliani, che non a caso si è ritrovato alle prese con ricordi ed emozioni dalle radici lontane. E ne ha parlato in maniera straordinariamente pregnante Martino Pietropoli, architetto in Rovigo, autore di The Design Council, in un post che tutti, ma proprio tutti, sarebbero felici di leggere: La fine del minimalismo.
Basta leggere il post di Martino per comprendere quanto concrete siano riflessioni come le sue, che a partire dall’esperienza di un pranzo come quello giungono naturalmente e si direbbe necessariamente a riflessioni di respiro totale e trasversale (sul design, sugli – scusate la volgarità – stili di vita, sulle culture e la storia).
E quanto all’opposto appaiano ormai astratti, volatili, inconsistenti, tutti gli approcci alla cucina, al cibo, alla ristorazione (alta o piccola che sia) che in nome di un rancoroso e piccolo-borghese richiamo alla pseudo-concretezza di un ma in fondo si tratta solo di mangiare dà vita (anche e soprattutto tra i foodblog!) a deprimenti prose in arrampicata libera sugli specchi della vuota gergalità specialistica e di settore.
Un pranzo, un’esperienza estetica (nel senso pienamente filosofico del termine), un ritrovarsi attorno alla tavola (e che tavola!): col cibo e il vino (e che cibo e che vino!) ricondotti al rango loro proprio (e che rango!) di medium del vivere e dello stare insieme. Strappati finalmente dallo status di feticcio cui vengono volgarmente ridotti da troppi sedicenti esperti.

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  • Grazie a tutti, grazie a te, grazie a San Lorenzo. E’ il respiro dell’umanità che emana da questi blog, o no?
    Anche i bit son di carne e sangue, e godono!

  • AAA, cercasi opioni e pareri positivi al fine di cambiare la mia idea riguardo all’Ambasciata.
    La mia prima ed ultima volta e’ stato ormai 4 anni fa e quindi e’ ormai caduta in prescrizione, ma grandi interrogativi mi accompagnano da allora. Questi interrogativi sono:
    1- solo a me succede di provare una sensazione come di … ehm … “sporco” quando vedo la sala piu’ addobbata, ornamentalmente pesante, suppellettilmente strabordante, pavimentata da un multistrato di tappeti sui quali volano sbicchierate di vino utilizzato per avvinare bicchieri ecc… che io abbia mai visto?
    2- solo a me succede di trovare estremamente pesante ed indigeribile i piatti (lo so, bisognerebbe specificare i piatti: tortelli di zucca e scaloppa al soutern in primis ad es.)?
    Una nota riguardo al punto 2: NON sono abituato alla cucina mediterranea, dalle mia parti, 40 km da Quistello, lo gnocco fritto si frigge nello strutto e si mangia freddo la mattina dopo nel latte 🙂
    grazie per un eventuale aiuto alla conversione
    andrea b.

  • Beh, Andrea, io ci provo. Del resto lo sai che il mio spirito missionario non sa trattenersi… dopo però non ti arrabbiare, l’hai chiesto tu, ok?
    No, non ho avvertito alcuna sensazione di sporco nell’affollatissima (di cose) sala dell’Ambasciata. Semplicemente perché sporche non erano. Vale quel che dico per la cucina: riuscire “eleganti”, “fini”, “raffinati”, “essenziali” con due ingredienti separati e giustapposti in un piattone da un metro di diametro non è così difficile. Né è difficile tenere pulito un hangar con un paio di tavolini nel mezzo. Ma i mille calici e le millanta suppellettili dell’Ambasciata non avevano addosso un granello di polvere, né i tappeti apparivano appannati nei loro magnifici colori. Chissà, magari lì, da quelle parti, ancora cucinano. E ancora lavano, e battono i tappeti, visto mai!
    Quanto alla cucina: non ho mangiato il piatto che dici tu. Pesante e indigeribile, dici. Di mio posso dirti che la tripla razione di polenta che mi son fatto servire è stata tripla proprio a cagione della sua soave digeribilità. Sabato sera, giunto dalle parti di casa in ora utile, mi sono unito all’allegra brigata di cucina dell’enoteca sorelle dalpiano, e mi sono mangiato una zuppetta di fagioli con vongole calamari e canocchie.
    Trovargli un difetto: sì, nel senso letterale di quel che manca, e che neanche loro cercano, la sperimentazione. Lì non si sperimenta, si applica e basta. Alla perfezione però. E sono proprio gli sperimentatori, gli esploratori, come te e – se mi permetti – me, che dovrebbero di tanto in tanto concedersi, direi professionalmente, il lusso di un’esperienza puramente applicativa, fatta alla perfezione.
    Ci andiamo insieme alla prossima?

  • Si volentieri … e chi invita paga vero? 😛
    Cercare la sperimentazione all’Ambasciata, per chi non ne ha capito lo spirito, equivale a cercare la “nouvelle cousine” nei piatti della nonna.
    La loro, sempre che non ricordi male, e’ cucina super concreta del territorio.
    Il tortello di zucca (l’avete poi provato?) e’ tortello di zucca “e basta”
    La sbrisolona alla fine, sbrisolona “e basta” ecc..
    Ma ricordo solo io porzioni enormi, tutto grande?? 🙂
    Nel parlare della sala hai introdotto, in una sorta di parallelismo, il concetto della loro cucina e dei piatti.
    Dal quel punto di vista li trovo coerenti, sempre come la nonna, che accumulava i milioni di “ciàpapolver” sui mobili (anche in quel caso sempre puliti)
    Personalmente preferisco un po’ di essenzialita’ nell’arredamento (poi un giorno parleremo dei locali che stanno aprendo da qualche anno che, all’insegna dell’essenzialita’ pseudorientale, sono tutti uguali a loro stessi) e la stessa ricchezza nel piatto.
    Infine, per precisione, la scaloppa che citavo era di foie gras tanto per non farsi mancare niente 🙂
    prenota!!
    andrea b.

  • Approfitto di questo spazio per salutare, e ringraziare,
    la Compagnia Dell’Ambasciata; ristorante che mi era
    noto solamente tramite le guide ed articoli trovati
    tanto nel web che sulla carta stampata.
    Debbo dire che ho trovato proprio quello che mi
    aspettavo niente di più niente di meno, certo è che il
    locale è meglio vederlo che immaginarlo, così come la
    cucina è meglio mangiarla che leggerla.
    Mi ha sorpreso il cuoco, una persona bellissima, affabile ed ironica, disponibile; da fare un bis per poterlo incontrare di nuovo e sentirlo intercalare frasi
    dialettali ad un italiano comunque lombardo.
    Bella coppia con il fratello che conduce la sala.
    Della cucina è già stato detto, concreta senza fronzoli,
    di territorio e godibilissima.
    E.T.

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