Sono sei i più grandi gruppi editoriali librari del mondo (le cosiddette Big Six dell’editoria): Hachette, McMillan, Penguin, HarperCollins, Random House, Simon & Schuster. Ebbene, da oggi i sei diventano cinque, perché la notizia del giorno è che Random House si è comprata Penguin.
Nelle note ufficiali non sentirete mai parlare di acquisizione, bensì di merger, ovvero fusione tra i due gruppi. Ma i fatti sono questi: la società risultante dalla pretesa fusione, la Penguin Random House (il 25% del mercato librario di lingua inglese, in pratica), sarà controllata al 53% da Bertelsmann (proprietario di Random House), mentre Pearson (che controllava Penguin) sarà in minoranza, col rimanente 47%: fusione solo a chiacchiere, quindi, di fatto Pearson decide di mollare Penguin (sfiancata dalle traversie causatele dal digitale) e il business dei trade books, per concentrarsi sul suo core business, l’editoria scolastica e di formazione (e ci sarà di che discutere su quel che succederà in quest’area, che giusto adesso comincia ad accorgersi del terremoto che sta per investirla).
Roba grossa, come vedete. E perché mai i due giganti sono arrivati a questo? Ovvio, il refrain degli editori è ormai sempre lo stesso: per fare fronte allo strapotere dei grandi retailers (Amazon sopra tutti) ed essere sufficientemente grandi per non subire i diktat di costoro. Fare la faccia cattiva contro Amazon, dunque, questo è il motivo.
Fin qui la fredda cronaca. Ora vi dico quel che ne penso io: tutto sbagliato.
Nel digitale la competizione non è più al centro del business: integrazioni e partnership sono invece al centro di ogni plausibile strategia di sviluppo, o anche soltanto di sopravvivenza.
Ne volete una prova? Leggerete ovunque di quanto ora è gigantesca e potente questa nuova entità: “A combined Random House and Penguin would be a supplier so large it would be very difficult for any anyone to dictate terms to”, dice il (sedicente) guru dell’editoria digitale made in USA Mike Shatzkin.
Certo, grande, e in misura preoccupante, nei confronti degli autori, che saranno ulteriormente schiacciati da questo strapotere: Random House e Penguin sommato insieme hanno fatturato ben 3,8 miliardi di dollari nel 2011!
Ma quanto ad Amazon? Tutto crolla non appena ci si scomodi a googlare “annual revenues Amazon”, per cavarne l’informazione che nel 2011 Amazon ha fatturato, da sola, 48 miliardi di dollari. Insomma, non c’è gara: Amazon potrà sempre sopravvivere – magari soffrendo un po’ – ad un eventuale boicottaggio da parte di Penguin Random House. Al contrario questi ultimi avrebbero le settimane contate qualora smettessero di vendere libri attraverso Amazon.
E insomma, la verità è che Pearson (mollando Penguin) scappa via dal mercato dei libri commerciali, e Bertelsmann (acquisendo Penguin in Random House) butta un po’ di fumo negli occhi dei suoi investitori gonfiando i muscoli, ma dimostrando di avere ancora il cervello scosso dalle recenti battaglie perse nell’industria musicale: è la stessa Bertelsmann che pensò bene di combattere Apple fondendo il suo business con Sony Music, per dare vita a Sony BMG. E che fu costretta a svendere il suo 50% di nuovo a Sony di lì a poco.
Accorato appello finale: cari amici editori, quand’è che vi deciderete a prendere sul serio il cambiamento in atto, concentrandovi su cosa vuol dire e come si fa l’editore di questi tempi? C’è tutto un mondo da cambiare, e opportunità da cogliere, solo che ci si metta in testa che il problema non è “come andare contro Amazon”, ma ripensare e concentrarsi sul proprio mestiere, e farlo bene.
Qualcosa però mi dice che non sarà dalle Big Six, e neanche dalle Big Thousand, che verranno buone nuove su questo. Confido piuttosto negli Small Trillions dei piccoli e nuovi editori e degli autori, che preferiscono vedere Amazon (e tutti gli altri), come uno dei canali disponibili per raggiungere i propri lettori in modi nuovi, molti dei quali ancora da inventare.
Gli editori sempre più spesso mi fanno tenerezza… Sembrano dei bambini in un mondo di cui non capiscono ancora le regole e pertanto cercano di difendersi con mosse che definire fanciullesche è dire poco.
Peccato che in realtà abbiano fior di manager pagati profumatamente per cui quando si tratta di fare determinate scelte sarebbe auspicabile mettere in campo quella lungimiranza e quella competenza che ci si aspetta da dei professionisti. Amen. Vorrà dire che le scelte furbe, come viene detto, le faranno i piccoli. Piccoli di calibro, ma non ci cervello 🙂
E’ sempre lo stesso problema, il più complesso e difficile: gestire il cambiamento. E più le aziende sono grosse e strutturate e più l’approccio è difensivo e conservativo. Forse ci vorrebbero manager innovativi che provengono da altri settori ma mi pare di capire che l’editoria è uno di quei settori che si considerano troppo specifici per essere permeabili a contaminazioni esterne.
La conclusione è che probabilmente solo gli Small Trillions sapranno cavalcare il cambiamento.
Ma che succede se questo cambiamento, commercialmente chiaro, è pericoloso? Dare in mano ad un solo soggetto transnazionale come amazon (con le sue sedi fiscali sparse nei punti più opportuni) le chiavi della distribuzione mondiale di beni digitali (e non) non è forse una scelta più miope sul lungo periodo? Chiedo.
Certo che è pericoloso, Fabrizio, ma non è certo per i pericoli che rappresenta per le Random House (o, in sedicesimi, per i Mondadori) del mondo che mi preoccupo! È un pericolo per chi scrive, per chi legge, per chi produce, per chi vende, facendo la scelta di alimentare le diversità? Questo mi interessa! E allora si tratta, in questo brave new world, non di “competere contro” Amazon (o Apple o Kobo o Google…) ma di inventarsi modi e mestieri (e c’è tutto da fare!) che siano indispensabili ANCHE per loro. I dettagli richiederebbero rilassato approfondimento, di certo però si tratta di qualcosa lontano le mille miglia dal passivo schierarsi per questo contro quello. Come insegna il melodramma “Questo o quellooo… per me pari sooonooo!”.