Credo che le riflessioni fatte da Kevin Kelly nel suo recente post-saggio Better than free meritino di entrare a far parte delle dieci cose più importanti mai scritte a proposito della rete.
“How does one make money selling free copies?”
“Why would we ever pay for anything that we could get for free?“
Kelly si pone il problema cui tutti girano intorno, riguardo alla rete, prendendo il toro per le corna: come è possibile cavar fuori soldi da (detto più correttamente: fondare un’economia su) una realtà in cui le cose più importanti sono sempre di più gratis?
Il ragionamento di Kelly è lineare: la nostra è un’economia sempre più basata sui beni intangibili, e questi non sono che copie, che grazie alla rete possono essere prodotte e distribuite in maniera praticamente illimitata. Per questo stesso motivo ciò che può essere distribuito come copia (software, musica, film, libri, informazioni) è gratis, e ogni tentativo di attribuirgli un prezzo è destinato prima o poi a naufragare.
Di fronte a questa realtà schiere di economisti, business-men e manager si affannano a discutere discutere e discutere di business model. Ma affrontare il problema in termini di business model significa esaminarlo sempre e solo dal punto di vista dell’impresa, del venditore. Mentre la questione chiave, la domanda cui rispondere, viene in luce solo se ci decidiamo ad affrontare la cosa adottando il punto di vista dell’utente: perché mai dovremmo pagare per qualcosa che potremmo avere gratis? E quando compriamo qualcosa che potremmo avere gratis, cos’è che stiamo davvero acquistando?
La risposta di Kelly ha il fascino elegante del sillogismo ben fatto:
When copies are free, you need to sell things which can not be copied.
Well, what can’t be copied?
Il saggio di Kelly non è altro che il tentativo (ben riuscito) di rispondere a questa domanda: che cosa, nell’economia odierna, non può essere copiato, e dunque può avere un prezzo ed essere pagato?
Per un’analisi degli otto generative values, delle otto cose che sono meglio che gratis, vi rimando alla lettura, da fare con calma e attenzione, del suo pezzo (Internazionale ne ha curato una traduzione italiana qui: accettabile, non fosse che per l’inaccettabile improprietà della traduzione del titolo che rende l’originale Better Than Free con l’ammiccante, ma del tutto banale, scorretto e fuorviante Come fare soldi gratis, che non significa davvero niente).
Credo che si tratti di otto cose su cui chiunque si proponga di creare o mantenere un’impresa che ha a che fare con beni intangibili debba fare i conti (artisti, autori, programmatori, editori…) alla ricerca di risposte da sperimentare in concreto.
Credo anche che la cosa non possa affatto lasciare indifferenti le imprese che si occupano di beni tangibili, tanto più quanto più questi risultano tendenzialmente copiabili, magari non completamente gratis, ma quasi (dai prodotti di consumo di ogni giorno alle varie commodities).
L’unico problama è che sembra proprio non conosca molti aspetti della rete quali l’open source ed il careware.
> Credo anche che la cosa non possa affatto lasciare
> indifferenti le imprese che si occupano di beni tangibili
……molto interessante….
ma per chi produce e vende beni tangibili fatico a dedurne utilità concrete……
….un aiutino????
@Roberto: metti che io faccia bulloni, una commodity, sulla cui materialità i competitor sono ormai tutti appaiati, perché il materiale è lo stesso, il prezzo (tendente a zero) è lo stesso, ecc… Come faccio a fare la differenza? Probabilmente ho bisogno di “valori generativi”, come nell’economia del gratuito.
@lordmax, ma perché dici così? Cos’è che ti fa dire che KK non capisce la rete, l’open source ecc…? A me sinceramente non pare proprio! Famme capi’! 🙂
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