
- Produrre i contenuti costa un sacco di soldi! E migliore è il contenuto, maggiori sono in genere i costi di produzione.
- Una volta digitale, il costo di riproduzione del contenuto è 0, zero, zylch, nada.
- Ne segue che il prezzo del contenuto – che ha un costo di produzione così alto – tends to zero: migliore è il contenuto, maggiore sarà la velocità di propagazione delle repliche. Più elevato il ritmo di propagazione delle repliche, più breve sarà il tempo necessario perché il prezzo di quel contenuto arrivi a zero. In definitiva: il contenuto digitale, e soprattutto il contenuto digitale di grande valore è GRATIS.
- Non a caso, quando si parla di qualcosa di altissimo valore (il contenuto migliore), diciamo di esso che “non ha prezzo”
Ma ancora un piccolo regalo personale: ecco a voi il Primo Corollario derivato dalla suddetta Legge Universale, detto anche il Corollario del Mercante:
- Se vuoi fare qualche soldo coi contenuti digitali, concentrati sul packaging, e non sul contenuto.
Amen.
quindi i contenuti di qualità sono destinati a scomparire? avremo contenuti sempre piû scadenti ma impacchettati benissimo?
mi viene però un dubbio, se il contenuto è digitale e quindi “intangibile”, qual’è/dov’è il packaging?
Per marco: le tue conclusioni sono affrettate. Al contrario: un packaging fico con dentro un contenuto scadente avrà sì un prezzo, ma non avrà un VALORE. Io compro qualcosa per il suo valore (ovviamente percepito, soggettivo, ecc…), e pago un prezzo per averlo. Il prezzo è determinato dal packaging, il valore è determinato dal contenuto. Se il contenuto di valore è senza packaging allora è free. Un packaging ben fatto (deve quindi aiutarmi a cogliere meglio il valore del contenuto) merita il suo prezzo. E attenzione: col digitale in realtà tutto questo diventa solo più evidente, ma è sempre stato così. Pensa all’acqua: se vai al fiume e te la infiaschi è gratis. Se la vuoi che arrivi a casa dal rubinetto, o la vuoi addirittura in bottiglia, lì c’è un prezzo. L’acqua ha un grande valore, talmente grande che non ha prezzo. Il packaging dell’acqua ha un prezzo.
Per max: è tutto lì il lavoro da fare! Capire cosa vuol dire qualcosa come un “packaging digitale”, quando dove e come ha un senso, quando dove e come e in base a quali parametri diventa un packaging di qualità. Non avrà il parametro della “tangibilità”, ma non importa. Esempio: una applicazione che scarico dall’App Store di Apple o da Google Play ecc… è un contenuto “impacchettato” da applicazione. Un ebook in un certo formato è un contenuto impacchettato più o meno bene secondo certi criteri. Se il packaging è di scarsa qualità e/o di prezzo troppo elevato vado a cercarmi il contenuto al fiume, ops… in rete 🙂 Così come ci vado se nessuno si decide a impacchettarmelo come vorrei (quanti libri non sono ancora disponibili legalmente, ovvero “impacchettati”, e chi li vuole se li va a prendere? Di qui la cosiddetta “pirateria”, su cui prima o poi mi toccherà scrivere qualcosa di specifico, perché sarà anche ora di non chiamarla più così.
…Alla faccia di quelli che dicono che il valore del digitale 2.0 è la disintermediazione!
Quindi, al contrario, il valore commerciale (=prezzo) è determinato dall’intermediazione.
Banda, piattaforma, hardware… da tempo sostengo che è meglio inventare tablet e smartphone o controllare wifi e doppini, piuttosto che fare l’autore o l’editore.
In altre parole, il modello di business lo determina chi trasferisce, impacchetta, illustra, promuove il contenuto, non chi lo produce.
[Schieramenti culturali: Steve Jobs contro Aaron Swartz]
Però non è solo un problema di accesso, trasmissione e condivisione. Produrre contenuto di valore costa. Mantenere il talento costa.
E’ vero che ammirare la Gioconda è gratis, che leggere la Divina Commedia è gratis (…capirla, magari no…).
Ma mantenere creativi Dante e Leonardo costava anche allora, e infatti viandavano di corte in corte.
E comunque, la situazione è che in questo momento del mercato quelli degli addetti al packaging sono costi poco comprimibili, e si finisce per comprimere il costo della produzione prima. E quindi, già, il valore (=la qualità) del contenuto.
[…il vecchio equivoco che il lavoro culturale non sia lavoro di per sé…]
E c’è ancora una differenza: il libro, cui ti riferisci tu, anche nell’attuale forma ebook, è ancora (per poco?) un contenuto chiuso, con un autore identificabile.
Il contenuto digitale diffuso (chiamiamolo contenuto web per capirci) è un contenuto aperto.
Ovvero: chi è l’autore di uno storytelling, di una curation, di un editing? di una community, di un hashtag? non esiste?
Eh ma ci vuole tempo, mestiere, e talento anche lì. Se questo per te è packaging, siamo d’accordo. Per me è creazione di contenuto.
Ma, se ho seguito la logica, una volta digitale il costo di riproduzione del packaging è zero. Ne segue che il prezzo del packagimg – anche con un costo di produzione alto – tende a zero come il prezzo del contenuto. Dove sbaglio?
Ma, se ho seguito la logica, una volta digitale il costo di riproduzione del packaging è zero. Ne segue che il prezzo del packaging – anche con un costo di produzione alto – tende a zero come il prezzo del contenuto. Dove sbaglio?
[…] sono imbattuta in questo bel post di Antonio Tombolini per caso ma ci ho cominciato a riflettere preoccupata. Da tizia che da anni sta sulla rete non […]
Mi sovviene adesso che avevamo parlato del “packaging” a pagamento dei contenuti gratuiti qualche mese fa con i Wu Ming, quando insieme avevamo pubblicato “Giap – L’archivio e la strada”. Trattandosi di una raccolta di post scritti sul loro blog, sarebbero rimasti fruibili gratuitamente (Content is free), mentre il packaging, ovvero l’ebook con dentro tutti i post selezionati e con i paratesti sarebbe stato a pagamento. Mi pare un esempio concreto di come provare a monetizzare contenuti che in rete continuano a rimanere gratuiti.
La loro spiegazione si trova qua: http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=11822
Bravo Ciccio, proprio così. Che poi il packaging è, per es., anche il concerto rispetto al contenuto “musica”, mi spiego Gianni? Il packaging digitale è riproducibile a costo zero? No, non lo è: formati, impaginazioni (per rimanere ai libri), applicazioni, interfacce, gestione dell’esperienza utente, interattività, condivisioni, social reading tools ecc… Certo, meno ci lavori, più sei basic, e meno “packaging” hai, quindi poi non lamentarti 🙂
Sui concerti calza (c’è una barriera fisica chiamata “omino che strappa i biglietti all’ingresso”) ma sugli e-book non riesco a farlo calzare; un limite mio, intendiamoci. E’ che se io fossi un autore (cosa che non sono) “mi tirerebbe il culo”, come si dice in Romagna, lavorare per il poco o niente. Preferirei piuttosto dare gratis in formato ebook un’anteprima del 10/20% del libro, non necessariamente le prime pagine, e poi lasciare il libro in edizione completa solo su edizione stampata.
Rotolo qui su segnalazione di Enrica, carissima amica che si ostina nel convincermi a riporre una qualche fiducia nel web…
Leggo. Divoro. Faccio mio.
Tutto spietatamente vero. Ma cosa mi sta dicendo, azzardo, questo pezzo? Quel è il vero messaggio? Stupefacente: ancora una volta, il messaggio è che il primo indiziato è il mercato. (E la mano, stavolta, è ancora più invisibile…)
Il mercato, infatti, non si dimostra dunque in grado di riconoscere (e prezzare) la qualità. Non è semplicemente un problema di gap tra costo dell’investimento e ritorno del contenuto di qualità (il ROI del talento espresso, vorrei azzardare), ma la questione diventa quindi la piattaforma su cui questo mercato si… esprime. Il web, appunto.
La questione potrebbe essere quindi così tradotta: il mercato-web, che potrei Baumaniamente ridefinire “mercato-liquido”, è davvero in grado di arginare le imperfezioni del mercato-fisico? In altri termini, può un contenuto di qualità, sul web, essere adeguatamente riconosciuto (e prezzato), senza che debba necessariamente transitare per la popolarità del suo autore (o del suo mecenate)? O il mercato-web, così come quello fisico, è già un topos interamente da ridiscutere?
Ecco allora che il binomio “qualità-prezzo” si impoverisce ulteriormente, zavorrandosi di un terzo anello: la popolarità.
Ed ecco che la questione si appesantisce ulteriormente, scivolando sul triplice nesso “qualità-popolarità-prezzo”, laddove l’anello centrale del trittico è correlato con il prezzo, ma NON con la qualità.
Che fare, dunque? Saperlo…!
Io sono un caso raro. Da laboratorio, quasi. Da un anno, sfido infatti la mia presunzione, buttando sul web contenuti sui legami razionali (a-emotivi) tra Decrescita e attuale modello socio-economico.
I miei nomi sono quelli che in pochi conoscono. Non parlo di Latouche, ma di Ivan Illich. Non (solo) di Mauro Corona, ma di Plinio il Vecchio. Non di Ermete Realacci, ma di Gary Snyder.
Mi chiamo “Low Living High Thinking”, http://llht.org.
Risultati? Buoni direi: crescita lenta, ma incessante. Come piace a me.
Contenuti economici (http://llht.org/2012/10/07/i-consumatori-zombie/), di denuncia sociale (http://llht.org/2013/04/20/sciuscia-2-0/), a volte dottrinari (http://llht.org/2013/02/14/11-settembre-chiesa-2/), per i più sfrontati.
Il Return On Investment? ZERO!
Ma… rotondissimo! Che neanche Giotto…
😉
Chapeau!
😀
Se l’unica ragione (soggettiva) per cui compro un contenuto è il suo valore, perché dovrei pagare un prezzo per un packaging che non aggiunge nulla al valore del contenuto? Ma se il packaging (viene assunto) non aggiunge nulla al valore del contenuto, l’altro motivo per cui sarei disposto a pagare è che il packaging soddisfa, esso stesso, in modo unico, un bisogno collegato (in modo decisivo) al contenuto che cerco. Io pago l’acqua in bottiglia non perché la bottiglia è un packaging ben fatto del valore (non economico) che attribuisco all’acqua, ma perché è esso stesso un modo unico per avere soddisfatta una esigenza specifica: (ad esempio) la comodità di avere acqua facilmente trasportabile. Il mio dubbio è che se il packaging non aggiunge nulla al contenuto e se non è in grado di soddisfare un bisogno collegato, per così dire, in modo essenziale, all’uso o all’accesso del contenuto, perché si dovrebbe pagare solo per avere un packaging ben fatto? Alla lunga l’alternativa del “free” prevarrà. Dunque mi sembra che la questione decisiva sia quella di “trovare la bottiglia del contenuto digitale”: qual è la connessione forte fra packaging e contenuto digitale che incontra la disponibilità a pagare del consumatore? Siamo così sicuri che la storia recente abbia dimostrato che questa connessione è stata trovata per la musica?
Buongiorno,
da semplice utente curioso della Rete – anche se assiduo e affascinato frequentatore, ma non specialista di editoria – debbo dirle che questo post è proprio interessante sia in termini di spunti che di riflessioni che permette di generare…
Non sono solito postare commenti, ma in questo caso mi corre l’obbligo, per segnalarle – se non già noto – il seguente sito, relativo proprio alle nuove prospettive di utilizzo del mezzo digitale e soprattutto a nuove potenzialità di “packagingc” di contenuti…
https://sumbola.com/home
Un saluto cordiale
Sono sempre incuriosito dagli invocatori della Decrescita come Andrea Strozzi che, poi, parlando dei risultati della loro attività, affermano: “crescita lenta, ma incessante. Come piace a me.”
Cavolo, Alf…!
Mi ha preso in castagna…! Hai smascherato tutte le mie contraddizioni…! Mi hai annientato in meno di tre righe…!
– – – – – – – – – –
Brutta bestia la mediocrità, eh…? 😉
Come “quale mediocrità”?
Quella che ti impedisce di firmarti con un nome e un cognome, per esempio.
Quella che ti impedisce di “conoscere” prima di “giudicare”.
Quella che ti ha sempre tenuto lontano da Ivan Illich, da Zygmunt Bauman, da Jean Giono.
Quella che, per finire, non ti fa considerare che, con soli 88 tasti, si può comporre un numero infinto (quindi… crescente) di musiche. Ma che, con una tastiera infinita, non se ne può comporre nemmeno una. La metafora non è mia, ma viene da qui: http://goo.gl/QG4JZn
Un caro saluto, Alf!
E ricorda: il mondo della Decrescita non è limitatezza dei fini, ma dei mezzi.
Tutto vero e legittimo ció che ho letto, permettimi di dire la mia al riguardo:
Essendo uno scrittore, mi interrogo spesso sulla questione “cosa vogliono i miei lettori?”. Non posso evitarlo anche perché non scrivo solo per una gratificazione personale ma voglio dare un servizio di qualitá alla gente.
La tendenza generale, secondo le statistiche ma soprattutto secondo il giudizio dei lettori ormai da troppo tempo pilotati dai media, é quella di ricercare prodotti d´intrattenimento che siano di immediata comprensione e che ¨si leggano da sé¨.
Da questo non si scappa, é la legge del mercato. Una legge che se vuoi puoi ignorare anche se fino ad un certo punto se lavori nel campo dell’editoria.
I vari Svevo, Pirandello, Lampedusa sono pilastri della narrativa italiana del ‘900 e saranno per sempre nei cuori e nelle menti di chi ama leggere o scrivere, e davvero mi interrogo se oggi ci siano penne in grado di realizzare opere ispiranti di tale intensitá…ma forse non é piú possibile!
I grandi nomi sopracitati sono stati dei pionieri della letteratua moderna (se mai e’ possibile forgiare la letteratura d’oggi di tale appellativo) proprio per questo sono importanti, ma allora perche’ la questione é diversa con gli autori contemporanei?
Penso che le idee valgano piú dei contenuti, anche se raffinati e ricercati.
C´é gente che afferma che ormai é giá stato inventato tutto e scoperto tutto e che non rimane altro che raffinare ció che giá esiste.
Ma la creativitá non ha un limite e non puó neanche essere definita, si possono dire e ridire le stesse cose ma il modo di proporle puó evolvere all´infinito regalando nuove prospettive e freschezza.
Se le condizioni per pubblicare un libro e venderlo sono difficili e la risposta del pubblico fredda forse é perché siamo in una situazione stagnante dove la concorrenza spietata miete vittime a causa delle limitate risorse (intellettuali).
Allora io dico o ci si conforma alle esigenze di mercato e si vive felicemente senza giudicarne la natura altrimenti ci si mette anima e corpo a creare un metodo nuovo che sia pionieristico e ispirante. Fatto questo uno diventa padrone di tutte le regole, rompe gli schemi e sfonda la barriera che separa il mondo dalle nuove frontiere.
Ed e´ possibile raggiungere nuovi orizzonti perché sono disponibili, basta provare a cercarli e spesso sono le idee che cercano chi le cerca.
Ciao Antonio,
avresti un consiglio per uno di 41 anni laureato 18 anni fa che da 4 mesi circa, dopo aver perso il lavoro, non riesce a trovare uno straccio di misera occupazione.
C’è un sito serio italiano/estero da visionare, che tu conosci?
[…] sempre prestato il massimo rispetto alla Legge Universale dei Contenuti Digitali (il contenuto è gratis, quel che si paga è il packaging). Che detta in altre parole significa che […]